A Guido d’Arezzo, monaco benedettino, musicista e teorico, dobbiamo una svolta epocale nella storia della musica e della cultura: l’invenzione della moderna notazione musicale scritta, un’innovazione di portata storica, che ha inciso profondamente sullo sviluppo della civiltà musicale occidentale come la conosciamo oggi.
Ancorando la volatilità dei suoni alla stabilità della pagina scritta, svincolando il linguaggio musicale dalla precarietà della tradizione orale, diventavano possibili due cose che ai nostri occhi appaiono scontate ma allora non lo erano affatto: da un lato il brano musicale poteva essere fissato sulla pagina così come l’autore lo aveva creato, senza il rischio di modifiche o storpiature dovute a défaillance mnemoniche dell’esecutore, e soprattutto poteva essere preservato e tramandato oltre la contingenza dell’uso quotidiano.
Generi, forme e singole opere da lì in avanti sarebbero stati conservati anche una volta caduti in disuso. Senza questo passaggio, il patrimonio musicale come lo conosciamo neppure esisterebbe, e non conosceremmo la storia della musica.
Dal punto di vista dell’esecuzione e dell’apprendimento, l’innovazione introdotta da Guido d’Arezzo non era meno straordinaria: la scrittura dei suoni permetteva di leggere e riprodurre cantando o suonando, una musica senza averla mai ascoltata prima, e di trascrivere, fissandola sulla pagina, una melodia che si era sentita. Nel caso specifico dei cantori ecclesiastici, non era più necessario avere un insegnante per l’apprendimento di ogni nuova composizione, e soprattutto si riduceva a un anno o due il tirocinio necessario a formare un cantore, fino allora decennale.
Guido d’Arezzo, detto anche Guido Monaco, nacque attorno al 991- 992; il luogo di nascita resta incerto, e in mancanza di fonti documentarie, le ipotesi più accreditate sono Arezzo, Ferrara, Pomposa, Talla. Anche luogo e data della sua scomparsa non sono documentabili con sicurezza – una tradizione ininterrotta dal Cinquecento, lo vuole priore del monastero di Fonte Avellana (PU), dove sarebbe morto intorno al 1050, ma non abbiamo attestazioni documentali dopo il 1033.

Sembra comunque certo che Guido fu dapprima monaco nell’abbazia di Pomposa, dove si occupò dell’insegnamento della musica ai confratelli, avendo così modo di confrontarsi con le difficoltà che i monaci incontravano nell’apprendere e ricordare i canti della tradizione gregoriana. È plausibile che da qui iniziò il suo percorso che lo avrebbe portato ad un metodo di insegnamento totalmente nuovo, con la codificazione della moderna notazione musicale.
Forse a causa di alcune ostilità da parte di ambienti dell’abbazia restii alle sue innovazioni che avrebbero reso il canto e la musica alla portata di una cerchia molto più ampia, Guido si trasferì nell’antica sede della Cattedrale di Arezzo, dove sotto la protezione del vescovo Tedaldo (1023-36) proseguì nei suoi studi e nella sua attività di istruttore di canto nella locale schola cantorum.
Al vescovo dedicò il suo trattato più famoso, il Micrologus, che unitamente alla bravura dei cantori aretini da lui istruiti con il nuovo metodo, gli diede rapidamente vasta notorietà in tutta Italia. La crescente fama di Guido fece sì che fosse invitato a Roma da Papa Giovanni XIX (Romano dei Conti di Tuscolo, in carica 1024 – 1032) per presentare il suo metodo, ottenendone probabilmente un riconoscimento e forse un invito a istruire il clero romano.
A parte l’attestazione del 1033 ad Arezzo, non abbiamo altre notizie certe su Guido, ma ci restano i suoi scritti, che testimoniano una svolta cruciale nella storia della musica: il citato Micrologus de disciplina artis musicæ, le Regulæ rythmicæ, il Prologus in Antiphonarium, l’Epistola ad Michaelem.

I quattro scritti sono trasmessi concordemente, anche se con notevoli varianti interne, come corpus compatto sotto il suo nome, da quasi una settantina di codici copiati tra la fine dell’XI e il XVI secolo. Le numerose ricopiature, i commentari e le frequenti citazioni delle sue opere, ne fanno il teorico più diffuso e studiato nel Medioevo dopo Boezio, e gli procurarono un’autorità indiscussa fino alle soglie dell’età moderna.
Precedentemente a Guido, vi erano stati dei tentativi di scrittura musicale, ma è a lui che è attribuita l’introduzione del tetragramma, il rigo musicale composto da quattro linee orizzontali contrassegnate da lettere-chiave, per indicare con precisione l’altezza dei suoni. Questo tipo di notazione divenne la base di quella attuale (il tetragramma verrà poi sostituito dal pentagramma, ad opera di Ugolino da Orvieto, 1380 circa – post 1457).
La novità didattica più rilevante da lui introdotta è invece il metodo della solmisazione, antenato del solfeggio. Per facilitare i cantori, utilizzò il sistema dell’analogia: i suoni contenuti in una melodia già nota sono presi a modello per ritrovare l’intonazione di un’altra melodia. Ci si esercitava così a distinguere e intonare i diversi intervalli.
L’allievo doveva apprendere l’esatta intonazione di una scala ascendente di sei note, il cosiddetto esacordo naturale. Per ricordarle, i suoni vennero associati alle sillabe iniziali dei primi sei emistichi dell’Inno a San Giovanni, di Paolo Diacono (720 circa – 799): UT queant laxis – REsonare fibris | MIra gestorum – FAmuli tuorum | SOLve polluti – LAbii reatum – Sancte Iohannes, (Affinché possano cantare – con voci libere – le meraviglie delle tue gesta – i servi Tuoi, -cancella il peccato – dal loro labbro impuro, – o San Giovanni) le cui frasi melodiche, (forse composte ad hoc o adattate dallo stesso Guido) iniziano ciascuna su di un grado più acuto della precedente. In tal modo, l’intonazione dei singoli suoni associata alle sillabe (Ut, Re, Mi, Fa, Sol, La) restava più stabilmente impressa nella memoria e poteva essere richiamata. Un’innovazione importante, poiché senza uno strumento a intonazione fissa a fare da riferimento assoluto, era quasi impossibile ricordare il suono di una nota svincolandolo dal canto nel quale compariva.

Le sillabe diedero il nome alle prime sei note musicali (Ut, Re, Mi, Fa, Sol, La) mentre il nome della nota Si fu ricavato successivamente dalle lettere iniziali delle parole Sancte Iohannes. Il termine Ut per ragioni eufoniche qualche secolo più tardi venne sostituito con il Do; tradizionalmente la modifica è attribuita al letterato e teorico della musica Giovanni Battista Doni (Firenze 1594 – 1647), che avrebbe utilizzato la prima sillaba del proprio cognome
A Guido d’Arezzo viene attribuita anche la cosiddetta mano guidoniana o mano armonica, un metodo mnemonico utilizzato nel Medioevo per aiutare i cantori nella lettura a prima vista di un brano musicale.
Nei manoscritti viene rappresentata attraverso il disegno di una vera e propria mano, dove le singole falangi e i relativi snodi corrispondono a toni e semitoni.
La mano guidoniana è mutuata dalle tecniche di memorizzazione che avevano avuto varie applicazioni fin dalla tarda antichità. Consiste nello schema della mano sinistra sulle cui dita, sulle punte e sulle falangi sono scritti i nomi delle note nel loro proprio ordine di successione. Ogni falange indica uno dei venti suoni in cui era suddivisa la scala della mano guidoniana. Gli allievi imparavano a cantare seguendo le indicazioni del maestro che con l’indice della mano destra si soffermava sulle falangi della mano sinistra, indicando le note. La mano armonica era perciò un utile strumento didattico, che facilitava l’apprendimento delle lettere della gamma musicale e delle relative sillabe della solmisazione, associandole una a una, con un movimento a spirale, alle articolazioni e alle estremità delle dita. Riprodotta numerose volte nei trattati di musica medievali e rinascimentali, divenne una sorta di emblema dell’istruzione musicale.